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Giovanni Martinelli racconta
Intervista rilasciata a Seattle nel 1967 -Traduzione di Luciana Tucci
Signore e Signori, amici miei, praticamente ogni compositore d'opera da Monteverdi, Vissuto oltre 350 anni fa, fino ad oggi, ha fatto del tenore il suo eroe nella maggior parte delle proprie opere.
lo ero - io sono - un tenore, ma ora non mi sento eroico. Tuttavia, quelli di voi che sono all'incirca nella mezza età e oltre, forse si ricorderanno di quando sono stato un eroe, proprio qui nella vostra bella città. Lasciate che vi racconti una storia.
Molti anni fa, più di quanto io sia pronto ad ammettere o voi a ricordare, qui ho cantato in concerto. All'inizio, alla prima rappresentazione, era mia abitudine accertarmi dove fosse l'uscita dal teatro più vicina, in caso fossi stato costretto ad abbandonare il palcoscenico in tutta fretta. In quella occasione, come era mia abitudine,
non mancai di prendere nota dell'uscita di emergenza dietro le quinte... Benissimo!
A metà del concerto si udì il suono d'allarme di una campana, seguita da altre in rapida successione. Potevano significare una sola cosa... Fuoco! Mi guardai attorno (naturalmente tenendo ben a mente l'uscita d'emergenza). Non vidi fiamme, non sentii odore di fumo, e più di mille persone erano davanti a me. Dovevo affrettarmi verso l'uscita di sicurezza? La gente era in piedi, il panico era nell'aria. Cosa doveva fare Martinelli? Un tenore ha un solo pensiero quando il pericolo incombe: cantare, e così cantai restando sorridente e composto al pianoforte. La platea sembrò rassicurata e sedette. Era accaduto che il custode, in piedi dietro le quinte per ascoltarmi cantare, si era completamente dimenticato di fare il proprio lavoro, che consisteva nel ricaricare il congegno che controllava l'allarme.
Quando suonava il clarinetto nella banda militare nel 1908 (Martinelli è il quarto dall'alto, in terza fila)
Egli non fu rimproverato ed io il giorno dopo fui acclamato come un eroe.
Questa volta non canterò per voi. Vi parlerò soltanto. Di cosa? Di me. "Martinelli parla di Martinelli". Oggi fungerò esclusivamente da collegamento tra la musica che tutti noi amiamo e voi, i miei ascoltatori.
Un trovatore che narra le proprie avventure degli ultimi 60 anni, 54 dei quali passati nella nostra meravigliosa America.
Per fare ciò, devo chiedere la vostra indulgenza su una questione.
Odio il costante uso del pronome "io", ma devo parlare delle mie esperienze e non ho alcun diritto di utilizzare il pronome editoriale "noi".
Ricordo che da ragazzino sedevo ai piedi degli anziani e ascoltavo con riverenza i racconti delle loro esperienze piene di saggezza e sapienza.
Ora i ruoli si sono invertiti e grazie al successo conseguito nella vita mi sento in grado di potervi parlare. lo c'ero, . ho visto e sentito, ed ecco il mio racconto.
Mio padre era un bravo falegname, e lo ero anch'io, in una piccola città del nord Italia.
lo ero il più grande di quattordici figli e sin da piccolo ho collaborato al sostentamento della famiglia facendo qualsiasi cosa, anche raccogliere l'uva per fare il vino e svolgendo tutti i lavori di un ragazzo di campagna. Forse è da lì che ho avuto tutta la mia forza, era un vita sana, e,il pasto principale era composto da una minestra di verdure.
E. allora? lo la adoravo e se uno di voi volesse prepararmi oggi il pranzo, datemi prima una ciotola di zuppa e qualsiasi cosa mi darete dopo per me andrà benissimo. Ho cominciato a cantare da contralto in chiesa all' età di sei anni. Avendo una voce naturale, già a quella età mi chiedevano di fare degli assolo; posso con tutta sincerità dire che canto davanti ad un pubblico da oltre tre quarti di secolo. All'età di undici anni la mia voce iniziò a cambiare, e il silenzio fu il mio destino fino all'età di diciassette anni, quando maturai una voce da tenore. Fu durante questo periodo che, nell'impossibilità di cantare, iniziai a studiare il clarinetto e siccome per la maggior parte mi si chiedeva solo di soffiare, e per un tenore questo è facile, riuscii a continuare con la mia musica.
A venti anni andai sotto le armi e grazie alla conoscenza del clarinetto fui selezionato per far parte della banda del reggimento. Naturalmente cantavo, senza preparazione, le canzoni e le arie che qualsiasi giovane italiano avrebbe cantato a quella età.
Un giorno il mio ufficiale comandante mi senti mentre cantavo davanti alla finestra aperta delle camerate e decise che avevo un talento che meritava di essere sviluppato. Fui accompagnato a Milano e una volta lì, contro le forti proteste di mio padre; mi fu offerta una borsa di studio.
Dopo sei mesi di studio i miei sponsors vollero ascoltarmi cantare per giudicare i miei progressi. Fu un fiasco totale.
Giovanni Martinelli in una foto con Giuseppe De Luca (alle sue spalle), Arturo Toscanini (al pianoforte) e colleghe
La freschezza, la naturalezza e la spontaneità della voce che essi avevano ascoltato nella mia prima audizione erano completamente scomparsi. I miei sei. mesi di studi erano stati un disastroso errore e loro erano pronti ad annullare il contratto e a rimandarmi a casa. Potete immaginare la mia disperazione. Loro ritenevano che la mia voce non era andata persa, ma semplicemente era stata mal impostata. Fortunatamente alle dipendenze dei miei sponsors all'epoca lavorava come contabile Giuseppe Mandolini, un ex tenore.
Egli ebbe modo di ascoltarmi insieme a Tullio Serafin, il grande direttore d'orchestra. Mandolini individuò il mio problema e con il sostegno di Serafin propose che gli fossero concessi tre mesi durante i quali era certo di poter ripristinare e reimpostare la mia voce.
Vi interesserà sapere che nel 1908, prima di iniziare le lezioni a Milano, il comitato locale della mia città natale, Montagnana, mi aveva chiesto di interpretare il ruolo del Messaggero nella rappresentazione dell' Aida; l'opera fu rappresentata per dodici volte nel corso di quello che chiamavano il Festival Autunnale. Fui pagato 3 lire (un corrispettivo oggi di $ 0,60) a rappresentazione.
Il mio debutto ufficiale avvenne il 29 dicembre 1910, cantai il ruolo principale nell' Ernani di Verdi al Teatro Dal Verme di Milano. Cantai anche il Bui Blas nello stesso teatro, e dopo un po' si sparse la voce che il giovane Martinelli venuto dal nulla forse non aveva troppa esperienza ma aveva sicuramente due polmoni decisamente forti. Un giorno il Direttore del teatro, che era anche il mio sponsor, mi comunicò che dovevo fare un' audizione per una persona. Uscii sul palcoscenico e guardai giù nel buio auditorio ma non vidi nessuno.
Una voce mi chiese cosa avrei cantato e ricordo che scelsi "Celeste Aida" e "Cielo e mar" dalla Gioconda. Quando finii due uomini vennero sul palco e il mio cuore si fermò. Ero solo all'inizio della mia carriera ma in Italia tutti conoscevano Arturo Toscanini e Giacomo Puccini.
Mario Cavaradossi in Tosca
Puccini all'epoca aveva cinquantatre anni, era abbastanza alto, con un fisico e una voce molto virili; mi afferrò la mano con vigore e disse "Bravo giovanotto, penso che tu andrai bene". Poi mi spiegarono.
La Fanciulla del West di Puccini, che aveva fatto il suo debutto mondiale sei mesi prima al Metropolitan con Caruso, Destinn e Amato, doveva fare il suo debutto europeo quella estate al Teatro Costanzi di Roma. Caruso non era disponibile e la parte di Dick Johnson, il ruolo del tenore, era stata affidata ad Amedeo Bassi. Tuttavia, siccome Bassi era stato contattato per partecipare alla Stagione dell'Incoronazione di Giorgio V a Londra, ci voleva un altro tenore per sostituirlo ed io fui scelto per il compito. Fu da queste rappresentazioni che la mia carriera ebbe veramente inizio.
Puccini fu cosi soddisfatto delle mie interpretazioni della 'Fanciulla" che chiese alla Scala di ingaggiarmi, nonostante io cantassi nel secondo teatro di Milano, il Dal Verme, con Claudia Muzio nelle rappresentazioni di Manon Lescaut sotto la direzione di Ettore Panizza.
Le interpretazioni di queste due opere dettero il via alla mia carriera internazionale a Londra presso il Covent Garden, a Monte Carlo, a Budapest, a Bruxelles e altre capitali europee.
Puccini mi ha aiutato molto nel corso della mia carriera. Le sue raccomandazioni insieme a quelle di Toscanini favorirono l'ingaggio offertomi da Giulio Gatti-Casazza, l'impresario del Metropolitan nel 1913.
All'inizio fu l'interpretazione di Cavaradossi nella Tosca che più di qualsiasi altro ruolo mi diede la fama. A Londra mi fu richiesto ben due volte il bis nell'ultimo atto dell'aria "E lucean le stelle"; in totale cantai quell'aria ben tre volte di seguito.
In America Gatti-Casazza mi prestò alla Compagnia di Philadelphia dove feci il mio debutto americano nella Tosca con Mary Garden, Dio la benedica, e Vanni- Marcoux. Ancora oggi Mary cantando avrebbe intercalato il francese. Ricordo che quando uccideva Scarpia lei si chinava su di lui e ringhiava "Voilà, c'est fait" prima di dire le sue righe più conosciute "Davanti a lui tremava tutta Roma".
Una delle ultime volte che vidi Puccini fu nel 1921, tre anni prima della sua morte. Egli parlò entusiasticamente di una nuova opera che stava scrivendo, chiamata Turandot Mi disse che aveva completato solo a metà la parte del tenore, poi sedette al piano e mi suonò l'ultimo atto. Mi disse che gli sarebbe piaciuto che io interpretassi quella parte alla Scala e che sperava di poterla completare per il 1923. Come voi ben sapete il tumore alla gola che lo uccise nel 1924
rallentò il suo lavoro e l'ultima scena dell'opera dovette essere portata a termine dal compositore Alfano.
Purtroppo Gatti-Casazza rifiutò di darmi un congedo dagli impegni con il Metropolitan e così persi l'occasione di interpretare la parte e non mi fu possibile cantarla se non alla Stagione dell'Incoronazione al Covent Garden del 1937. Comunque fui io il primo tenore a cantare "Nessun Dorma" e la parte finale della più grande aria di Turandot "In questa reggia" che comincia con le parole: "O principe" e culmina con due do acuti da parte sia del soprano che del tenore. Eva Turner, la grande soprano drammatica inglese, è l'artista che canta con me questo brano.
Nel 1912 cantai il mio primo Canio nei Pagliacci, un ruolo che ricoprii per oltre 200 volte. Quando ascoltai Caruso al Metropolitan nel 1913 compresi che dovevo modificare in qualche modo la mia interpretazione per renderla diversa. Andai da Leoncavallo e chiesi il suo aiuto.
Il compositore dei Pagliacci mi guardò meravigliato e un po' disgustato e mi disse ridendo "Martinelli, ti rivolgi a me quando puoi vedere al Metropolitan il più grande Canio che nei miei sogni potessi mai immaginare. Vai a chiedere aiuto a Caruso. Io veneravo Caruso, ma esitavo a chiedere. Probabilmente Leoncavallo gli scrisse della mia richiesta perché Caruso mi invitò alle sue prove. Una sera, dopo una recita favolosa, andai nel suo spogliatoio e sinceramente non sapevo cosa dire. Egli mi chiese "Ti è piaciuto il mio Canio stasera, Giovanni?" "Cosa posso dirti Enrico" risposi "non mi sono ancora ripreso dall'esperienza". Poi mi disse: "Ti è piaciuto il mio costume?" Risposi "Non potrei immaginare un costume diverso per Pulcinella". Si girò verso il suo valletto e gli ordinò "Domani porta il mio costume a Giovanni, da oggi in poi sarà suo". Ricevetti il costume pulito il giorno dopo. Non l'ho mai indossato ma l'ho conservato tra i miei ricordi più preziosi".
Caruso mi insegnò dove trattenere e dove mostrare le emozioni, impersonando Canio, e dove dovevo attaccare con il gran finale di "Vesti la giubba" in due respiri, così che il legato non viene mai interrotto.
Egli insistette anche che io usassi la sua innovazione nella partitura della musica che segue "Vesti la giubba". In quel punto l'angosciato Canio barcolla attraverso le quinte del piccolo teatro e prima di entrare urla le parole, non scritte nel testo originale, "Infamia, Infamia" nel momento in cui l'uomo si rende conto che la sua giovane
moglie si è presa un amante. È proprio l'anima dell'uomo che si rivela in tutta la disperazione di quel momento e gli spettatori nel teatro non riescono quasi a respirare, se il Canio riesce ad interpretare in modo convincente i suoi sentimenti.
Con la moglie Adele e i figli
Nel 1917 il Metropolitan mise in scena il Faust con Geraldine Farrar, Leon Rothier, Pasquale Amato e me con la direzione di Pierre Monteuz. Faust fu la mia seconda opera in francese, Carmen fu la prima. Studiai intensamente con Monteuz e ricevetti molto aiuto anche da Rothier, che Charles Gounod stesso, il compositore del Faust aveva scelto per farlo studiare presso l'Accademia di Francia. Lavorai anche con Nellie Melba e in particolare a Cleveland con Emma Eames, di cui Gounod diceva "Lei è la personificazione della mia Margherita". Così ero ben preparato per svolgere questo compito, che mi permise di dare di nuovo voce allegato così importante per interpretare una opera romantica come questa. Il requisito dei toni eccezionalmente alti mi sarebbe servito anche per gli anni a venire, quando avrei interpretato altri grandi parti . drammatiche francesi -le Juives, i Prophetes e i Samsons negli anni '20.
A questo punto la mia voce era all'apice della maturità sia nel repertorio lirico che in quello drammatico. Sentivo di aver raggiunto il successo sia artisticamente che vocalmente.
Forse il più grande ruolo francese che abbia cantato è stato Eleazar in La Juive. Naturalmente avevo sentito Caruso che lo aveva interpretato nel 1919 e nel 1920.
La sua interpretazione era stata incredibilmente buona e da essa fui ispirato nelI'interpretare la stessa parte.
Con la morte di Caruso La Juive fu tolta dal repertorio. Assunsi Salvatore Fucito, l'accompagnatore di Caruso, come mio pianista e insegnante dopo la morte di Enrico. Egli portò alcune parti dell'opera con sè e mi chiese di provare a cantarle.
Io assimilai la partitura e nel dicembre del 1923 andai da Gatti-Casazza e gli dissi che ero pronto, se lui avesse deciso di rappresentare nuovamente l'opera. Siccome questo ruolo richiedeva che io interpretassi un uomo anziano, il presunto padre dell'eroina, non il suo amante, che era totalmente permeato nell'animo e nell'agire dal fervore per la sua religione e dalla determinazione di vendicarsi, non desideravo semplicemente imitare l'interpretazione di Caruso ma volevo creare una mia personale interpretazione di questo forte personaggio. Mi sono dato da fare e mi sono recato in visita presso le case di riposo dove anziani uomini ebrei trascorrevano gli anni del loro declino, osservai il loro modo di parlare, di comportarsi, di gesticolare, di camminare, etc.
Eleazar ne: La Juive
Il 13 dicembre 1924 l'opera fu rappresentata ed io cantai la parte di Eleazar.
La prima rappresentazione fu un successo, ma io stavo covando i germi del tifo e immediatamente dopo la rappresentazione mi ammalai.
Per sei settimane fui tra la vita e la morte, mentre i giornali facevano risaltare le similitudini tra il mio caso e quello di Caruso e cominciarono a far circolare la voce secondo la quale La Juive era un'opera maledetta; La Juive, ricorderete, fu l'ultima rappresentazione completa nella carriera di Caruso.
Infine; dopo tre mesi stetti abbastanza bene per ritornare sul palcoscenico.
Feci il mio rientro cantando ne Pagliacci e poi Gatti-Casazza mi chiese se avevo paura di ricantare La Juive. Risposi che le maledizioni erano un retaggio del paganesimo e che io credevo in me stesso e in Dio. Cantai La Juive e continuai a cantarla per altri venti anni. Sicuramente conoscete l'aria famosa cantata da Eleazar nel quarto atto "Rachel, quand du Seigneur" che Caruso rese famosa: la registrai nel 1924, il primo anno che cantai quell'opera. Concedetemi a questo punto di tornare un po' indietro, in effetti al 1915, quando per la prima volta cantai Il Trovatore al Metropolitan.
Quale fra tutte le opere che ho cantato mi è piaciuta di più? È impossibile dirlo. Dipendeva tutto dalle circostanze, dai colleghi artisti, e dal luogo in cui un certo tipo di rappresentazione doveva essere tenuta. Come artista le ho amate tutte e se avessi l'opportunità di ritornare alla mia giovinezza le ricanterei tutte con la stessa gioia ed entusiasmo che mi hanno pervaso per oltre mezzo secolo.
Posso però fare una scelta tra i compositori. Per me Verdi fu il Re. Egli per me è stato l'Imperatore dell'Opera, ed io non sono stato altro che un discepolo dotato da Dio Onnipotente dell'immensa capacità di interpretare il messaggio che il Re della Musica ha lasciato al mondo. Questo è il mio epitaffio e nessun uomo può averne uno più fiero.
Spero di aver soddisfatto le vostre aspettative e che abbiate trovato le mie personali osservazioni interessanti.
Grazie
Giovanni Martinelli